Cannes 2015: Amy Winehouse e Moretti, quante lacrime

AMY WINEHOUSE A CANNES –

Si è pianto oggi al Festival di Cannes 2015. Persino i giornalisti stranieri più antipatici e duri alla fine di Mia madre di Nanni Moretti non hanno fatto in tempo ad asciugarsi le lacrime prima che si riaccendessero le luci, anche perché le mani erano impegnate in un lungo applauso. Neanche il tempo di ricomporsi e subito in Sala Bunuel a vedere Amy, il documentario di Asif Kapadia (l’autore del bellissimo docufilm su Senna) sulla Winehouse. A ora di pranzo, insomma, le ghiandole lacrimali erano più sofferenti dello stomaco vuoto del critico precario alle prese con i ristoratori strozzini di Cannes.

Asif Kapadia
Asif Kapadia, regista di Amy

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AMY, LA DIVA PERDUTA –

Kapadia, come già con Ayrton Senna, si dimostra un compositore di immagini, un abile visionario che nelle vite altrui riesce a trovare una trama potente fatta di pubblico e privato, di iconografia e dettagli, di simboli e lati oscuri, malinconici, fragili. Delle stelle che brillano, lui, riesce a capire che sono lo spettacolo dolente di qualcosa di unico che già sta morendo. Di qualcosa di così speciale da non poter sopravvivere a lungo, perché il mondo non sa capirle, apprezzarle, salvarle.

AmyManifesto

Amy è uno struggente racconto di vita, di un’ascesa e di un crollo, di una gioia di vivere che muta nell’autodistruzione, di una donna fragile e appassionata che di quell’amore che metteva in una voce unica e in uno sguardo profondo è stata vittima e carnefice. Kapadia raccoglie, con fatica e diverse liti, per i diritti e per l’utilizzo, tutte le immagini possibili. Ha la fortuna di raccontare la vita di chi è nato, vissuto e morto nell’epoca in cui una testimonianza video non si nega a niente a nessuno. E proprio con questo sovraccarico di filmati, riesce in due imprese: restituirci la vera Amy Winehouse e pure quella persecuzione morbosa e ossessiva che i media, sedotti da lei e poi feroci contro il suo declino (incredibile come Jay Leno la ospiti con deferenza e pochi mesi dopo la ridicolizzi con una battuta, senza fare una piega), media che furono parte attiva di ciò che l’ha portata ad abbandonare questa terra troppo giovane.

AmyWinehouseCasa

Dai 16 anni alla more, Kapadia non ci risparmia nulla: la mamma che si colpevolizza per la propria superficialità giovanile, il padre cinico e opportunista che le abbandonò, causa delle sue relazioni sentimentali sbagliate e di tutte le sue insicurezze mascherate con droga, alcol e stravizi, la nonna salvifica che, con il suo decesso, rompe il precario equilibrio di Amy. E poi i suoi fedelissimi, le amiche di sempre, i vampiri che ne gestivano la carriera. Apparentemente normali, ma implacabili nel trattarla come una slot machine. A cui lei si ribella a Belgrado, non cominciando un concerto con almeno 100.000 persone a fischiarla. Live che non voleva, che sapeva essere un punto di rottura nel suo tormentato percorso di recupero.

AmyWinehouseCannes2015

 

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AMY, LA RECENSIONE –

Il materiale, umano, fotografico, video, emotivo e narrativo c’era tutto insomma. E la vita di quella che forse è stata l’ultima rockstar era già un film. Talmente tanto e con un’attrice così inimitabile che per interpretarla serviva l’originale. Kapadia sa cucire il tutto dandogli una narrazione da grande biopic, con una capacità di calibrare ritmi, note, immagini e testi (a volte in sovrimpressione, altre volte scritti a penna dalla stessa mano di Amy) davvero superiore. L’impressione è che Kapadia stia riscrivendo la grammatica del cinema documentario sui grandi personaggi, rifiutando l’agiografia ma entrando in certe esistenze con implacabile delicatezza. E senza risparmiare nulla a nessuno. Perché in quei flash abilmente messi in evidenza in ogni uscita della Winehouse, c’è la denuncia più forte ed evidente all’attuale società dello spettacolo, vortice inesorabile che pretende sempre un sacrificio umano diverso, per vendere copie, fare ascolto, guadagnare sulla pelle di chi è stato investito da una fama sostenibile.

AmyWinehouseConcerto
Per raggiungere la perfezione, probabilmente, si doveva raccontare tutto in maniera più asciutta. Non servivano 127 minuti, venti in meno sarebbero stati sufficienti. Ma è anche vero che nella vita di Amy Winehouse ci sono i tormenti stupefacenti dei Doors, l’autodistruzione emotiva di Sid e Nancy, la malinconia infantile e insicura dei Joy Division. Quindi, forse, andavano fatti tre lungometraggi. Noi, però, di quest’opera non ci portiamo dietro il dolore di Niky, l’amico di sempre, al funerale, abbracciato dalla donna che il giorno dopo sposerà (quanto sa essere beffardo il destino). No, noi ci portiamo la bambina felice e impaurita perché sta duettando con il suo idolo, Tony Bennett. Che, immenso, rimane a bocca aperta sentendola. Dal vivo. E alla fine la abbraccia. E forse, con quel gesto, rischia di salvarla. Amy Winehouse era quello. Tanto amore, troppo per un mondo come questo.

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