Gone Girl: il film che fa discutere i social e vuole l’Oscar

Gone Girl. Aprite Facebook e Twitter e scoprirete che si sta scatenando ciò che negli ultimi mesi abbiamo già visto succedere per Interstellar e La Grande Bellezza. L’Italia dei social si conferma piena di complottisti, allenatori della nazionale e da un po’ di tempo di critici cinematografici.

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IL CINEMA DI NUOVO AL CENTRO DEL DIBATTITO – E così ecco arrivare le recensioni trionfali e le stroncature apodittiche, quasi sempre in poche righe. Se non in 140 caratteri. E se si va a cercare, le due parole più frequenti sono “capolavoro” e “mediocre”. Tra le due fazioni, di solito, c’è solo un punto in comune, l’impressione (giusta) che ci siano una ventina di minuti in più che potrebbero essere tagliati. Ma si sa, Fincher da sempre ha piacere di girare e mostrare le sue storie con tempi che è tra i pochi a potersi ancora permettere.

Perché Gone Girl divide tanto? Forse, la verità è che è uno di quei racconti, di vita ed emozioni, che fanno un filo troppo male per essere giudicati con serenità. Ai tempi de L’ultimo bacio, qui in Italia – la Rete non dominava così tanto il dibattito e per fortuna del regista di quel film, Gabriele Muccino, non c’era twitter, dove ora fa più danni che dietro la macchina da presa – si dava fuori dalle sale alternativamente del cialtrone e del genio al cineasta romano. A distanza di anni si può dire che era un buon film, eccezionalmente girato. Cosa spingeva a quella divisione? Il fatto che Muccino fotografasse una generazione che vi si immedesimava. Ma quei giovani erano immaturi e superficiali, un po’ bamboccioni e edonisti. Così chi ci sguazzava, era felice di non sentirsi solo e chi così non si sentiva, si arrabbiava parecchio. Con chi ci si rispecchiava e quindi con il film.

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GONE GIRL-  L’AMORE BUGIARDO NON E’ (SOLO) UN THRILLER – Ecco, forse Gone Girl vive lo stesso problema. Ci si attacca a qualche difetto di scrittura, alla colonna sonora invadente di Trent Raznor, all’inefficacia del meccanismo del thriller in tutti i suoi ingranaggi, per non guardare nell’abisso che apre. Perché David Fincher non vuole un thriller. L’autore di Seven e Il curioso caso di Benjamin Button usa il genere per entrare a gamba tesa in una coppia di giovani americani, belli e di successo, che da anni costruiscono attorno a sé l’apparenza della coppia perfetta. Ma la verità che l’amore, quel duetto paradisiaco e insieme diabolico – l’alchimia di un rapporto di questo tipo è qualcosa da sempre di inspiegabile e a suo modo oscuro -, nasconde tutto e mostra ciò che desidera. E vive di un equilibrio precario. Lui perde il lavoro, lei acconsente ad andarsene dalla Grande Mela per ricominciare, lui apre un bar con la sorella maggiore. Basta molto meno, siamo sinceri, per rovinare un amore perfetto, figuriamoci il loro, basato sul riflettere il proprio ego nell’altro.

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Ben Affleck e Rosamund Pike, Nick ed Amy, hanno le facce e i talenti giusti per ritrarre lo stereotipo di quelli “cool” e in carriera, che stanno troppo bene insieme, per poi doversi far investire dal lato oscuro. Lui, disorientato, è una sorta di boa alla deriva – anche nella nota ma utile mancanza di espressività (che in Argo aveva curato con la barba) -, lei, affascinante e contraddittoria, ti apre le porte del ciglio del burrone su cui camminiamo ogni giorno. L’infelicità, lo dimostra la nostra cronaca banale di morti eccezionali (da Franzoni a Panarello), può portare ovunque e Fincher ha la spudoratezza di dircelo, farcelo vedere, metterci dentro quel ménage che ha ingoiato ognuno di noi, quel mare in tempesta che forse quando è calmo è da temere più di quando sia in tempesta. Qui, ad esempio, tutto succede il giorno del loro quinto anniversario.

GONE GIRL RAPPRESENTA LE NOSTRE PAURE – Ben e Rosamund impersonano due che, in fondo, sono trascinati da passioni normali e malcontenti inevitabili. E l’impressione è che, chi si lamenta del thriller mal riuscito, non si voglia rendere conto che il regista ci mette su un piatto d’argento, e quasi subito, la soluzione perché vuole portarci altrove, molto più in là. Dove molti spettatori, che ora lo definiscono “mediocre”, non vogliono andare. Perché dovrebbero ammettere che la sera, tornati dal cinema, hanno guardato moglie e marito con altri occhi, un po’ preoccupati, hanno scrutato la fidanzata chiedendosi che segreti abbia o temendo i propri. Riflettendo sui propri sbagli, sulle proprie decisioni, su dove sta andando il proprio rapporto. O semplicemente hanno fatto fatica a prendere sonno, perché quei due, la loro storia, li ha riempiti d’inquietudine. Altri, invece, hanno deciso che “non può essere possibile quello che si vede in Gone Girl”. Successe anche con Funny Games di Haneke. Conosciamo, però, questo mondo. E sappiamo bene che tutto può succedere, soprattutto quella normale discesa agli inferi di Gone Girl. Se poi c’è pure Emily Ratajkowski di mezzo… 

GONE GIRL, FINCHER IL NUOVO HITCHCOCK– Cosa quindi non convince di Gone Girl? Che David Fincher sia l’unico capace di replicare ciò che riusciva, in passato, solo a Hitchcock. Di creare parabole cupe, storie semplici e complesse, monografie corali, ambiziose e al limite del credibile (ma inevitabilmente reali, sullo schermo), labirinti emotivi da cui puoi uscire con una sola strada, con una sola decisione, andando verso una sola direzione. Non siamo più abituati, tanto che non pochi, messi di fronte a Sir Alfred, trovano i suoi film invecchiati. E invece no, siamo diventati più pavidi noi, incapaci di guardarci dentro. E terrorizzati da chi vuole toglierci dalla nostra ambiguità, da chi illumina il nostro pensiero debole così rassicurante, da chi decide che il relativismo emozionale ed etico, soprattutto nella coppia, sia inevitabile. Fincher no, invece, non ci sta: a lui piace muovere gli scacchi e mostrare cosa succede quando lasci scoperta la regina. Andare a fondo, non distogliere lo sguardo. E non chiamarsi fuori.

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