Come la crisi ha cambiato l’industria italiana

Come si esce dalla crisi economica? Le risposte a questa domanda possono essere molteplici e non è detto che siano tutte efficaci al fine di una soluzione del problema. Ma certo con il passare dei mesi le aziende, di qualsiasi dimensione, hanno riscoperto l’importanza della formazione al proprio interno, intesa come metodo necessario a valorizzare le risorse al loro interno per ottenerne un vantaggio competitivo.

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LA RICERCA DI MIP ED ISTAT – In sostanza, si ci coltiva in casa il quadro o il dirigente del futuro. A questo proposito l’Istat, in collaborazione con il Mip-Politecnico, la scorsa settimana ha diffuso un’analisi dal titolo quantomeno emblematico: «chi vince e chi perde, l’industria italiana oltre la crisi» che fotografa la situazione del sistema produttivo italiano cercando di fare luce sulle azioni delle aziende in risposta alle difficoltà dettate dalla crisi. Dal 2008 al 2013 l’industria italiana ha perso il 24 per cento della sua produzione a causa di due recessioni consecutive, 2008-2009 e 2011-2013. Appare stupefacente poi il confronto tra il fatturato delle aziende che si rivolgono al mercato italiano e quelle che puntano all’estero. Nel primo caso si è assistiti ad una diminuzione del 17 per cento e nel secondo ad una crescita del 3.

LE QUATTRO CLASSI – L’Istat ha voluto dividere le aziende italiane oggetto dell’indagine in quattro gruppi, a partire dai dati sul fatturato, per sottolineare le differenze causate dallo stato del mercato a cui queste si rivolgono. E se si prende a riferimento il secondo periodo recessivo, ovvero quello compreso tra 2011 e 2013, emerge che sono 4.600 le imprese vincenti, quelle che hanno visto un aumento del fatturato sia interno sia esterno. A seguire ci sono le 8.500 aziende crescenti all’estero, con un aumento del fatturato extra-Italia ed una diminuzione di quello interno, oltre a 3.400 imprese crescenti in Italia. Infine ci sono le imprese in ripiegamento, ovvero 9.100 realtà che hanno conosciuto un doppio calo nel fatturato.

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IL VALORE DELLA FORMAZIONE – Secondo Gianluca Spina, presidente del Mip, la scuola di finanza del Politecnico di Milano, nel caso di risultati positivi ha inciso maggiormente la strategia adottata dall’impresa. E le vincenti sono quelle che hanno investito nella formazione e nel capitale umano, oltre alla creazione di connessioni attraverso alleanze, reti d’impresa e joint venture. Ma sopratutto, ha concluso Spina, la delocalizzazione non rappresenta un atto di forza ma di debolezza. Uscire dall’Italia per rivolgersi a mercati il cui costo del lavoro è meno gravoso di quello nostrano non rappresenta una scelta efficace. Anzi. Secondo Spina il tasso di delocalizzazione tra le aziende vincenti è sotto la media. Anzi. La formazione incide per il tre per cento delle aziende vincenti mentre la delocalizzazione va sotto zero, a -2,7 per cento.

UN VANTAGGIO COMPETITIVO – Per le crescenti all’estero, invece, la delocalizzazione è al primo posto con un valore del 6,5 per cento rispetto allo 0,7 della formazione. Quindi è necessario, a partire da quest’analisi, considerare che i migliori risultati arrivano attraverso l’investimento e che questo può essere rappresentato sotto forma di sinergia con altre aziende del proprio settore o sotto forma d’investimento sul proprio capitale umano. A questo proposito Expotraining, la fiera della formazione, ritiene che i vantaggi di una maggiore partecipazione nella crescita e nelle competenze dei dipendenti da parte delle aziende, nella prospettiva di un rilancio dell’economia, può trasformare una risorsa un vantaggio competitivo all’interno del posto di lavoro, a patto però che questa venga formata al suo interno ed aggiornata rispetto a quelle che sono le necessità presenti e future dell’azienda.

Convegno Internazionale "Make it in Italy" - Industria Manifatturiera e Crescita Economica

CI VUOLE PROSPETTIVA – Marco Speziali, presidente di Confai Academy, ripreso da Agronotizie, ritiene che un percorso di formazione ed informazione rappresenti la risposta alle aziende zootecniche che in preda alla crisi cercano un rimedio che consenta loro di tornare in equilibrio. Questa la sua ricetta: «È inutile che le aziende agricole appesantiscano il bilancio aziendale con ammortamenti alla lunga insostenibili. Meglio valutare l’ipotesi dei servizi agromeccanici in outsourcing, eventualmente stringendo accordi pluriennali con il proprio contoterzista di fiducia per ottenere condizioni più favorevoli. Il piccolo e medio imprenditore agricolo farebbero meglio a limitare gli investimenti in attrezzature considerate cruciali per il proprio business». 

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