La vera storia della lista ministri del Governo Renzi

22/02/2014 di Alberto Sofia

Tutt’altro che una formalità. Salito al Colle da Giorgio Napolitano per sciogliere la riserva e presentare la squadra dei ministri del governo, Matteo Renzi è stato costretto a ritrattare su alcune scelte chiave. A partire dalla nomina alla Giustizia: se l’intenzione del segretario democratico era quella di affidare l’incarico di Guardasigilli al pm antimafia Nicola Gratteri, a bocciare la scelta è stato proprio il capo dello Stato. Era la carta della discontinuità giocata dal premier incaricato e dal fedelissimo Graziano Delrio. Già apprezzata dall’opinione pubblica. Ma di fronte alle resistenze del Quirinale c’è stato poco da fare: «Mai un magistrato in quel dicastero», si è opposto Napolitano. Una regola non scritta, secondo il Colle, come svela Repubblica. Eppure già nel caso del berlusconiano Francesco Nitto Palma non venne rispettata. Ma Renzi ha dovuto cedere, ottenendo in cambio il via libero per il cambio agli Esteri tra Emma Bonino e la nuova ministra Federica Mogherini. Altra scelta discussa, dato che il capo dello Stato puntava alla riconferma della storica esponente radicale. Ma non sono stati gli unici nodi.

Governo Renzi squadra ministri 3

GOVERNO RENZI: IL LUNGO CONFRONTO CON IL COLLE SUI MINISTRI – Il confronto tra il premier incaricato e Giorgio Napolitano è stato serrato su alcuni punti critici individuati. Al di là delle dichiarazioni di rito: «Il mio braccio non è stato sottoposto a prove di ferro», ha spiegato Napolitano di fronte ai cronisti, nel tentativo di allontanare le indiscrezioni che riportavano della sua operazione di “moral suasion” su alcuni incarichi della squadra dell’esecutivo. Non sarà stata una “trattativa”, ma è certo – come concordano i maggiori quotidiani – che alcuni “no” abbiano pesato.

nicola gratteri

 

Su tutti proprio quello su Nicola Gratteri. È stato il Fatto Quotidiano a svelare (citando alcune fonti anonime) come il simbolo della lotta alla ‘ndrangheta fosse stato rassicurato dell’incarico fino a qualche ora prima della salita di Renzi al Colle: «Sei in squadra». Poi, il Capo dello Stato ha fermato tutto, cancellando il nome del procuratore aggiunto alla Dda di Reggio Calabria dalla lista. Al suo posto è andato l’ex ministro dell’Ambiente Andrea Orlando, che si occupava di Giustizia nel Pd già ai tempi della segreteria Bersani. «Resta da capire come giustificherà il veto», ha incalzato il Fatto. Di certo, la nomina di Gratteri sembrava complicata già prima del “niet” del Colle. Non c’erano, in realtà, molte speranze. Il motivo? Bastava analizzare l’eterogenea maggioranza del governo Renzi. Non pochi, considerata la presenza di Angelino Alfano e del Nuovo centrodestra, immaginavano come improbabile un incarico che aumentasse la rilevanza della magistratura. La posizione di Ncd e di Forza Italia – fuori dall’esecutivo, ma alleato renziano per le riforme, ndr – era appunto per un riequilibrio della bilancia, secondo loro troppo a vantaggio delle Procure. E come dimenticare la difesa da parte di Gratteri dello strumento delle intercettazioni e le sue critiche passate al Ddl Alfano. Un terreno sul quale potevano nascere scontri futuri con i «diversamente berlusconiani». Eppure Renzi sembrava non voler cedere alle resistenze di Alfano. Alla fine anche Silvio Berlusconi avrebbe ceduto alla scelta di Gratteri da parte di Renzi: «Basta che non sia uno di Magistratura democratica», aveva spiegato. Senza dimenticare come, nelle ore precedenti alle nomine, c’era chi ricordava anche quelle dichiarazioni controverse rilasciate dal pm sulla lotta alla mafia. Nel 2011, durante un incontro alla libreria Feltrinelli di Milano – oltre a criticare l’allora “riforma Alfano” della Giustizia («Se passa è la fine, potremo dire addio alla lotta a Cosa Nostra») – Gratteri spiazzò tutti, spiegando: «Se confrontiamo i 18 mesi dell’ultimo governo Prodi con il governo Berlusconi, ebbene l’attuale esecutivo (Berlusconi, ndr) ha fatto di più in tema di lotta alla mafia». Così come fecero discutere anche alcune sue dichiarazioni sulla Mondadori, definita «esempio tangibile di liberalismo». Eppure, nonostante qualche dichiarazione considerata discutibile, Gratteri veniva visto dall’opinione pubblica come l’uomo giusto per modernizzare e rendere più efficiente la macchina della Giustizia, cercando di velocizzare i tempi biblici dei processi e combattere gli sprechi della burocrazia. Oltre che insistere nella lotta alle mafie e alla piaga della corruzione. Il suo nome aveva già acceso gli entusiasmi, prima della nomina. E scaldato anche la rete. Nulla da fare. Il capo dello Stato non ha concesso aperture. Tanto che, come ha ricostruito anche Repubblica, Matteo Renzi è stato costretto a rinunciare a quella personalità sui cui puntava per mostrare come il suo fosse davvero un “governo del cambiamento”. E non una riedizione del vecchio esecutivo. «Un Letta bis», o un «Napolitano III», come oggi critica il Giornale, sottolineando come il premier incaricato non sia riuscito a spuntarla sul nodo della Giustizia.

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Photocredit: La Repubblica

GLI ALTRI NODI: ESTERI E SVILUPPO ECONOMICO – Quello della Giustizia non è stato l’unico nodo da risolvere nelle due ore e quarantacinque minuti di incontro tra Renzi e il capo dello Stato. Come ha spiegato Goffredo de Marchis su Repubblica, anche le caselle degli Esteri e dello Sviluppo Economico sono state oggetto di lunghe riflessioni. Se Renzi ha dovuto cedere su Gratteri, è riuscito invece a superare le resistenze sullo scambio Bonino-Mogherini alla Farnesina. La stima di Napolitano verso l’esponente democratica non era in discussione, ma il Colle puntava alla conferma della radicale, per una questione di continuità nei rapporti internazionali:

«Vuole la conferma di Emma Bonino. Renzi s’impunta e sa che può forzare. “Da oggi in Italia non vale più che una donna di 40 anni non possa andare alla Farnesina – spiega – non vale più che una donna non sia adatta al ministero della Difesa. È una risposta alle politiche di questi anni che non mi sembrano piene di successi”. Mogherini viene descritta da Renzi come “una tosta, anche spigolosa”. Gli piace. “Eppoi l’obiettivo era dare alle donne un ruolo non ornamentale”. Vale anche per Federica Guidi, sulla quale Napolitano ha dei dubbi per il vecchio ruolo in Confindustria. “Però il pacchetto economico va visto nel suo complesso – risponde Renzi – Dovevo riequilibrare politicamente Padoan e Poletti. E la Guidi sa parlare sia con le imprese sia coi lavoratori», scrive Repubblica.

IL MANUALE CENCELLI – Una lunga partita, in pratica, tra Colle e Renzi, al di là delle dichiarazioni ufficiali. Ma Renzi non ha dovuto cedere soltanto alle pressioni del Colle. Ha dovuto anche fare i conti con quelle provenienti dai “cespugli” – considerata l’eterogenea maggioranza, con nove tra partiti e gruppi che lo sostengono – , le diverse forze politiche che puntavano ad essere rappresentate. Soddisfatta Scelta Civica, con il ministero, di peso andato alla segretaria Stefania Giannini, che ha sostituito Maria Chiara Carrozza all’Istruzione. Accontentato l’Udc, che all’Ambiente ha piazzato Gian Luca Galletti. E sono state soddisfatte anche le ambizioni degli alfaniani, riusciti a confermare i dicasteri chiave, compreso Alfano al Viminale (l’ex delfino di Berlusconi ha dovuto cedere soltanto la vice-presidenza, rispetto al governo Letta). Un “manuale Cencelli” che ha lasciato, di fatto, tutti contenti. O quasi, se si fa eccezione per l’uscita di scena dei Popolari per l’Italia di Mario Mauro, che ha perso il dicastero della Difesa a vantaggio della democratica Pinotti. Anche dentro il Pd tutte le correnti sono state rappresentate: se i renziani non mancano (dalla Boschi a Delrio), sorride anche Areadem, con Dario Franceschini, Mogherini e la stessa Pinotti. Ma il “colpaccio” è quello dei dalemiani, con la nomina di Padoan all’Economia. Pesa anche l’incarico conferito ad Andrea Orlando alla Giustizia. Per finire, la mossa a sorpresa di Renzi, con Maria Carmela Lanzetta agli Affari regionali, “civatiana”. Una carta giocata dal futuro premier per tenere a freno l’area di minoranza e per vedere quale sarà adesso la reazione, dopo che era stata messa in dubbio la stessa fiducia all’esecutivo. Una nomina che ha fatto infuriare lo stesso Civati, che ha spiegato di non saperne nulla: «Renzi sta facendo di tutto per farsi votare contro», ha spiegato l’ex consigliere della Regione Lombardia, pronto a trasmigrare verso un nuovo soggetto politico che raggruppi dissidenti democratici, malpancisti a 5 Stelle e l’area di Sel.

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